Oggi il pianeta Terra è in una crisi ecologica cruciale: come ci dovremmo comportare? Le misure da prendere sono tante, da tempo, per esempio, abbiamo accettato senza problemi che la legge ci vieti di fare del male, fisicamente, a qualsivoglia individuo. Senza esitazione, dobbiamo accettare che nello stesso modo ci vieti di contribuire a distruggere globalmente la vita terrestre – umana e non umana.

 

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di Aurélien Barrau

È necessaria un’evoluzione profonda, radicale, rivoluzionaria.

Una delle cause principali della mancanza di azione deriva dalla controversia sulle cause del disastro. Ognuno ha la propria opinione. Per qualcuno l’origine è ovviamente il capitalismo, per altri la demografia, per altri ancora la religione e così via. Il fatto è che non saremo mai d’accordo tra noi. In altre parole, se per agire aspettiamo che la grande causa (sapendo che ciascuno pensa di averla già identificata) sia esaminata in ogni dettaglio, non agiremo mai. Per esempio, se dovessimo scegliere il neoliberismo come causa principale della catastrofe (scelta che ha un suo senso), dovremmo aspettare la Rivoluzione per passare all’azione? È improbabile che succeda in tempi brevi e l’attesa sarebbe suicida: la fine del mondo arriverebbe prima. Per una volta, credo si debba ribaltare l’ordine, e guardare alle conseguenze – la negazione della vita e del futuro – prima di dedicarsi alle cause. Agiamo. Agiamo ora contro gli effetti e vedremo qual è il sistema che ci permette di farlo. Cominciamo dalla fine e quella ci mostrerà l’inizio. Senza dubbio la mutazione dovrà essere profonda.

È fondamentale che l’ecologia sia la priorità assoluta di ogni potere politico. Dobbiamo impegnarci solennemente a non eleggere più nessuno che non metta in atto misure decise, chiare e concrete per evitare il collasso del vivente, opponendosi alle lobby e ai poteri finanziari ogni volta che sarà necessario. Non è una cosa da poco, e forse potrebbe essere persino impossibile nell’attuale sistema economico mondiale. Se è così, bisogna cambiarlo, o perire. Non dovremo neanche avere il ministro per l’Ecologia: dovrà essere il Primo ministro! Il Presidente! L’ecologia è la nostra àncora di salvezza. Non possiamo resistere lontano dalla nostra àncora. La Natura non si può limitare a un ministero: è il nome del nostro mondo.

Leggo ogni tanto che non si tratterebbe della fine del mondo, ma di un mondo, quindi della (possibile) fine dell’umanità. È un’analisi molto contraddittoria. O consideriamo il mondo come abitato non solo dagli umani – e allora è falso affermare che solo l’umanità è in pericolo: se andiamo verso la catastrofe, porteremo con noi una quantità davvero astronomica di animali molto reali! Oppure consideriamo il mondo fatto solo da umani – piuttosto folle, ma ricorrente – e allora si tratta davvero della fine del mondo. In entrambi i casi, la puntualizzazione non ha molto senso. Se la dimensione della catastrofe che abbiamo davanti non si può definire come «fine del mondo», allora non so cosa potrebbe esserlo…

Impegniamoci a pungolare il potere politico per obbligarlo ad agire seguendo la sola priorità razionalmente accettabile. Non smettiamo mai di dimostrare che il rigore e la ragione non sono al fianco degli apostoli della hybris dogmatica del consumo sconsiderato.Le evoluzioni suggerite nelle pagine precedenti sono piuttosto semplici e in parte godono di largo consenso. Prendono forma a partire da un’evoluzione che si può dire minore, che in realtà mi sembra decisamente insufficiente.

Il messaggio di Greta Thunberg, studentessa svedese che ha rifiutato di andare a scuola – ora molto mediatizzata – ha avuto una grande diffusione. Nel suo primo discorso, Greta ha spiegato che non aveva alcun senso che i bambini e le bambine andassero a scuola per prepararsi al futuro mentre stiamo negando la possibilità stessa di quel futuro. Inoltre, ignoriamo il messaggio scientifico più chiaro e più importante della nostra storia. Come possiamo chiedere agli studenti di studiare le scienze? Greta ha ragione.

Le manifestazioni dei liceali sono ovunque mosse dalla stessa angoscia. Il movimento tenta – con difficoltà – di internazionalizzarsi. Giovani militanti carismatiche e carismatici nascono in Africa, in Asia, in America…Diverse rivoluzioni fondamentali sono inderogabili di fronte a questa emergenza ecologica. La prima consiste nel riappropriarsi della politica. «Politica» è un parola carica di significati. Dapprima politikos – in origine, il vivere insieme e l’organizzazione della Città –, poi politeia – la struttura di funzionamento, l’istituzione –, e infine politiké – la pratica del potere. In tutti e tre le accezioni, ci aspetta un enorme lavoro. Forse l’emergenza ecologica imporrà – per fortuna – un profondo rinnovamento della nostra democrazia moribonda.

Davanti alla tragedia in corso (anche la prudentissima ONU evoca ciò che un importante giornale canadese riassume con «un prevedibile genocidio ambientale»), il richiamo alla responsabilità individuale non è sufficiente. Gli umani sono deboli, anche in rapporto ai loro princìpi, e hanno la tendenza ad abusare delle possibilità che si prospettano. Ma abbiamo inventato la politica proprio per affrontare questa debolezza. Spesso non abbiamo la forza di limitarci, ma abbiamo quella di accettare – persino di esigere – una legge che ci limiti. Per quanto possa sembrare paradossale, è là che l’azione è possibile, di fronte all’emergenza. È necessario l’intervento della legge per forzare le velleità individuali incompatibili con la vita comune. Non è questo il luogo per stilare una lista esaustiva dei provvedimenti necessari, ma i comportamenti dalle conseguenze «troppo nocive» non mancano. Dobbiamo tollerarli con fatalismo e contemplare i danni irreparabili con rimpianto?

Da tempo, e molto volentieri, abbiamo accettato per esempio che la legge ci vieti di fare del male, fisicamente, a qualsivoglia individuo. Senza esitazione, dobbiamo accettare che nello stesso modo ci vieti di contribuire a distruggere globalmente la vita terrestre – umana e non umana. Nonostante l’aspetto «coercitivo», un’evoluzione legislativa più severa nel divieto dei comportamenti «contrari alla vita» tenderebbe, alla fine, a una maggiore libertà. Vietando l’eccesso mortifero, si apriranno molte strade di arricchimento e di pacificazione. Vietare a un individuo di guidare in stato di ebbrezza, ne limita la libertà in quel momento, ma gli apre la possibilità di un futuro. È il momento di vietarci di guidare il mondo in stato di ebbrezza ecologica. Il divieto può avere una forma di «dissuasione dolce», per esempio con tassazioni proibitive, ma dovremo stare attenti che il diritto di inquinare non diventi una semplice questione di possibilità economiche.Decrescere – nel senso dello sfruttamento industriale – mi sembra razionalmente indispensabile. Questa parola non può essere un tabù. Ma parliamo solo di decrescita materiale. Non parliamo affatto di frenare la produzione intellettuale, l’amore, la creatività. Fermare un’esaltazione tecnocratica che confonde fine e mezzi, che rende la sovrapproduzione uno scopo e non un caso, in fondo è solo buonsenso e riscoperta di valori fondamentali o ancestrali. Si tratta di reinventare la continuità. Si tratta di riscoprire la bellezza sottile. Si tratta di non pensare più a piante e animali come risorse, ma come entità con un significato intrinseco, con le quali è certo possibile interagire, ma fuori della logica reificatrice che prevale oggi. Non si vuole in alcun modo vietare lo sviluppo o rinunciare a progressi significativi.

Non ci sono argomenti matematicamente inattaccabili per spingerci a mettere in atto la rivoluzione ecologica. La parola «ecologia» è essa stessa troppo limitata. Si dovrebbe piuttosto parlare di biofilia, amore per la vita. Allo stesso modo, il termine «ambiente» è troppo antropocentrico: si tratta della Natura, non soltanto di ciò che ci circonda. Non è questione di trovare la «verità» o il «bene». Sarebbe troppo semplice. È solo una scelta in opposizione a un’altra. Dobbiamo decidere se preferiamo salvare delle vite o delle merci, delle specie o un sistema, un futuro o un istante. Tutto qua.

È chiaro che in un mercato globalizzato, un Paese che prendesse la decisione di frenare la propria crescita si troverebbe in difficoltà rispetto ai suoi vicini. Sarà quindi responsabilità degli Stati mettersi d’accordo per una flessione mondiale, collettiva e ragionata. È davvero impossibile? Non lo so, ma è indispensabile. Non ci possiamo più permettere di non fare una scommessa del genere. I nostri rappresentanti sono lì proprio per risolvere queste difficoltà intorno a un tavolo negoziale. Se non ne sono capaci, non servono più a nulla. Se decidiamo che «è impossibile», scegliamo esplicitamente la morte. Quasi tutte le grandi civiltà collassate in passato erano consapevoli del rischio, ma sono state incapaci di trasformarsi. Riusciremo noi dove loro hanno fallito? Se non riusciremo, porteremo con noi molti ostaggi. Certo, bisognerà cambiare anche il cuore del sistema, ma credo che ciò avverrà in seguito. Non possiamo più permetterci di sperare che sia un preludio.Non tutto è compatibile con tutto. Smettiamo di far credere che la lotta contro la deregolamentazione climatica e l’inquinamento, per la salvaguardia delle specie e delle popolazioni animali, contro il rapido aumento di zone «inabitabili» per gli esseri umani in molti Paesi poveri, sia compatibile con una crescita perpetua diventata ormai una vera religione. Una religione senza Dio, una follia. Non è così: non possiamo sfuggire alle leggi della fisica. Non possiamo ignorare le lezioni dell’etica. Bisogna scegliere. E la scelta che facciamo ora è la più importante della storia dell’umanità e forse della storia della Terra.

Non è possibile conciliare un consumo eccessivo delle risorse (nei Paesi ricchi) e una speranza di futuro che tenga insieme biodiversità, rispetto della vita umana e assenza di catastrofi ecologiche. Il problema non è sapere se vogliamo capire, ma capire come agire in questa prospettiva.Un solo esempio tra i tanti: parte delle risorse delle grandi compagnie petrolifere si presenta sotto forma di greggio non ancora estratto. Se vogliamo evitare un turbamento climatico catastrofico, è chiaro che oggi quel petrolio non deve essere utilizzato in modo massiccio. Quelle imprese quindi, secondo la logica dell’evidenza, sono già fallite. A meno che non si voglia sacrificare l’umanità. Non possiamo non cambiare scenario se vogliamo pensare a un mondo vivibile. È ora di essere coerenti.


Aurélien Barrau è un astrofisico francese specializzato in relatività generale, fisica dei buchi neri e cosmologia. È professore all’università di Grenoble e lavora nel Laboratorio di Fisica Subatomica e Cosmologia di Grenoble (LPSC). È membro del Comitato nazionale per la ricerca scientifica (CoNRS), sezione di fisica teorica.

 

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